mercoledì 3 febbraio 2010

ASIMMETRIA



Roma sa di antico, rancido e borioso.
Lei lo percepiva, come percepiva la boriosità e la rancidità dell'uomo che le aveva affittato l'appartamento. A lui mancava l'attributo più importante: l'antichità.
Era solo uno stupido giovane, rancido e borioso. Un galletto di quartiere, un teppistello ripulito, un arraffazzonato truffaldino travestito da agente immobiliare, con le scarpe dalle punte lunghe ma quadrate.
E, se Roma si portava quegli aggettivi nella loro accezione più bonaria e scanzonata, su di lui, invece, ricadevano come un macigno di cattiveria, con la stessa sciocca bruttezza delle sue scarpe.
Anna veniva dal Nord. Fuggiva dal marito che non aveva mai avuto e da una figlia che non era mai nata e la monotona dolcezza delle pianure ferraresi se la portava nel cuore, con un misto di nostalgia e ribrezzo.
Aveva accettato il trasferimento un paio d'anni prima perché non aveva nulla da perdere e nulla da trovare e perché - si era detta - i ragazzini fanno chiasso nello stesso modo e le materie da insegnare rimangono sempre quelle.
Appena arrivata, aveva pensato di sistemare, almeno un po', quella casa brutta e buia ma così comoda per il prezzo e per l'ubicazione, poi il grigiore dei giorni e la pigrizia dei gesti avevano avuto il sopravvento. La caldaia si era rotta per l'ennesima volta e lo stupido giovane borioso tergiversava nel mandarle il tecnico.
Così, Anna se ne stava al freddo, avvolta in una piccola coperta di paille, le gambe rannicchiate sul divano liso e scricchiolante, ad aspettare che anche quel pomeriggio uggioso di una domenica di fine gennaio si consumasse.
Lo scenario era sempre lo stesso, domenica dopo domenica dopo domenica.
Un quattordici pollici a tubo catodico rimandava le immagini mute di qualche soubrette misconosciuta che dimenava il corpo seminudo e, tutt'intorno, altri personaggi misconosciuti facevano un gran parlare, un gran sorridere e un gran applaudire. Tutti sembravano divertirsi un mondo, tranne lei.
Lei si limitava a stare lì, incancrenita sul suo divano consunto, mentre guardava attraverso le pareti scrostate e giallognole di quell'appartamento provvisorio e scuro, mentre percorreva il filo delle crepe nei muri con occhi vacui, mentre subiva, con orecchie distratte, l'unica colonna sonora aritmica del rubinetto che gocciolava nell'acquaio e dell'orologio che scandiva il tempo interminabile, appiccato, sbilenco, al suo chiodo.
La Stramba la chiamavano i suoi alunni, nel migliore dei casi. La Zoppa. Anna di Legno. Piede di Porca. Loro non amavano i suoi vestiti fiorati di donna d'altri tempi, né i suoi capelli grigi raccolti sulla nuca, né potevano perdonarle, minimamente, la diversa lunghezza congenita delle sue gambe o l'accento estraneo del settentrione o, ancor meno, la dolcezza monotona della sua voce che andava avanti all'infinito, a narrar di poeti, battaglie, stilemi e alleanze, dritta come un fuso, lieve come le pianure del Po, inascoltata come la neve che cade sui rami.
Eppure Anna non era vecchia. Era stanca.
Tra una domenica e l'altra, i giorni procedevano tutti uguali: alla mattina la scuola, al pomeriggio i compiti di Italiano da correggere, le lezioni di Storia da preparare e un breve passaggio al supermercato per cibi frugali e insipidi da cucinare.
Nessuno da vedere, nessuno da sentire, niente da desiderare. Almeno qualcuno avesse ascoltato le sue lezioni. Almeno qualcuno avesse smesso di ignorare la sua voce senza ridurla, quasi ogni volta, al flebile lamento della formica che cerca di emergere, vanamente, in mezzo al frastuono molesto delle cicale in agosto. Almeno quello stupido giovane arrogante le avesse mandato il tecnico della caldaia senza farsi telefonare quattro volte e negare altre due. Almeno non fosse stata un'altra volta domenica.
Anna percepì un cambio di ritmo nella colonna sonora del suo giorno di festa. Alzò il volume del televisore, poi lo riabbassò. Qualcosa era cambiato ma non sapeva ancora cosa. Per un attimo pensò che il rubinetto del lavello avesse smesso di gocciolare. Si alzò dal divano per andare a esaminarlo ma, avvicinandosi, si rese conto che il rumore dell'acqua era inconfondibile.
Buttò uno sguardo alla parete e vide che l'orologio si era fermato.
Improvvisamente capì. Orologio appiccato, orologio sbilenco, orologio inchiodato.
Frugò nella cassetta degli attrezzi, trovò quello cercava, lo prese e si arrampicò sulla credenza, a fianco dell'alta porta del cucinotto. Con l'altezza guadagnata raggiunse la traversa che separava la porta dal sopraluce sovrastante, i cui vetri erano stati rimossi chissà quando, se mai ve ne erano stati alcuni. Ci legò la corda alla bell'e meglio e costruì un cappio di fortuna.
Si sciolse i capelli e pensò alla sua voce. Pensò alla fortuna, alla nostalgia e al ribrezzo.
Infilò la testa nel cappio e si gettò nel vuoto. E rimase così, a penzolare.
Una gamba più su e una più giù.



4 commenti:

Cuore aSOLlato ha detto...

Un altro racconto. Un altro capolavoro. Della bellezza che hanno le cose piccole, intime, frugate in un cassetto. Eppur grandi, come il dolore della solitudine; universali, come l'incomunicabilità umana; denunciate, come il monito di un manifesto. La nostra scrittrice raggiunge qui una delle punte più alte della Sua penna. Già il titolo, icasticamente, suggerisce il pathos sommesso e maliconico dell'azione, la crudeltà naturale della condizione umana, l'ironica amarezza dello stile narrativo: se "la vita è 'na guera che tutti dovemo fa'" - come recita l'incipit di una nota canzone di un giovane gruppo della provincia romana - essa è, a ben guardare, quella che gli esperti di tattica militare definiscono una "guerra asimmetrica". Asimmetrico l'amore dato e quello ricevuto, sproporzionato il fuoco nemico a fronte della forza concessaci, sleale l'illusione della vittoria. Anna lo sa. O, meglio, se ne avvede in un momento di sospensione (di apparente silenzio): un'epochè husserliana, che, crudelmente chiarificatrice, la porta al gesto estremo che chiude la narrazione, in quel dondolio sinistro e "asimmetrico". Il brano si apre elegantemente e alla lontana, con un motto di carattere amaro e sentenzioso (come già rilevammo in "Matite"). La constatazione sofferta sul "giovane" squallore del locatore, incolto e arricchito personaggio anti-pasoliniano, si va subito a scontrare con "quell'antichità" di Roma, che quasi allude al carattere antico e fuori dal tempo di Anna: è una protagonista tragica che vive in mondo che non riconsce più o che non ha mai riconosciuto come proprio. E' un'esule, una transfuga. Da se stessa, "dal marito che non ha mai avuto e dalla figlia che non era mai nata" (quale inarrivabile ironica sintesi stilistica dell'Autrice!), dalla vita. Ad accoglierla, non più le dolci pianure del ferrarese, ma una metropoli fredda e sfatta, chiusa nella sua vuota boria (riflesso in piccolo della vanità pomposa di un mondo in continua corsa verso il suo "sorridente" abisso, fatto di consumi, soubrette e luci d'avanspettacolo). Nel suo apparente antieroismo di persona sconfitta, dimessa e timida, Anna è un'eroina moderna: di ben altre virtù vive la sua fantasia, popolata dai suoi studi d'insegnante... ben altro sogni nasconde la sua vita, caricata ogni giorno stancamente come un giocattolo a molla, senza scopo. E come ogni vero eroe, ella è sola: e combatte appunto una causa persa, una "guerra asimmetrica". (segue post seguente...)

Cuore aSOLlato ha detto...

(...segue dal post precedente) La descrizione dell'Autrice è meravigliosa: dalla voce di Anna (che non fa rumore "come la neve che cade suoi rami"), alle nostalgiche note sulle "pianure del po", dai suoi alunni crudeli, aall'arredamento "sbilenco" dell'appartamento, con poche pennalate qua e là, la narratrice ci dipinge tutta una persona e il suo mondo. Il fraseggio è, come di consueto, ben ritmato e legato. La dinamica dell'azione calma e costante: con quel finale rarefatto, di una meccanicità surreale e onirica, che ben descrive l'improvvisa e distaccata diligenza che caratterizza il reale proposito suicidiario. E tutto il racconto è pervaso di tale dolcezza nei confronti della sua protagonista, che non commuoversi appare crimine imperdonabile! A differenza di molti scrittori e inventori di storie - dal cinema fino al fumetto - che paiono godere crudelmente della disperazione in cui pongono i loro personaggi, l'Autrice non si compiace affatto: la sua penna, compassionevole e vicina, sembra accarezzare la dolce Anna con tale affetto, che tutto il racconto pare stringersi, come una preghiera, al suo corpicciuolo esanime (cui anche la natura ha negato, in quella beffarda asimmetria, la dignità della tragedia). E, come canta lo Chansonnier genovese, "Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia se in cielo in mezzo ai Santi, Dio fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all'odio e all'ignoranza preferirono la morte".
(N.d.R.: a proposito di Dio, la Critica è discorde nel riconoscere nell'Opera dell'Autrice una possibile apertura a una qualche fede religiosa. A me basta sottolineare che l'arte insuperata e insuperabile della Stessa sembra negare la teoria del caos cieco e ottuso... e la sua Opera narrativa e poetica andrebbe annoverata fra le prove scolastico-medievali dell'esistenza di Dio...) :-)

enantiodromica ha detto...

... tu sei di parte, uomo ...
:) ;)

federica ha detto...

..io ci spero sempre...fino alla fine... fino all'ultima lettera...che accada qualcosa di illuminante, modificante, inebriante e cangiante..e non riesco a smettere!....