martedì 7 dicembre 2010

WOVENHAND LIVE IN ROME @ INIT


Non mi stupirò mai abbastanza di come alcuni musicisti riescano ad essere assolutamente entusiasmanti ed emozionanti dal vivo, rispetto a certo piattume lezioso immortalato nei loro rispettivi dischi, e, al contrario, di come altri siano decisamente espressivi ed incisivi nei supporti sonori, per poi risultare inefficaci e deludenti nella resa dal vivo.
David Eugene Edwards, in arte Wovenhand o Woven Hand che dir si voglia, purtroppo, è la sssècònda-che-hai-dètto. Con mio inaspettato disappunto.
Ad aprire il concerto ci pensa il duo del percussionista e poli-strumentista greco Loukas Metaxas che accompagna i Wovenhand in tutto il loro tour europeo, tra Germania, Svizzera, Italia, Spagna, Portogallo, Francia e Paesi Bassi.
Loukas e il compare, che suona una lira moderna, hanno la faccia da gnomi cattivelli dei Balcani, profumano di feta e pasticci di moussaka e si esibiscono in litanie neniose e monocorde, al sapore di cetrioli e olive kalamata, anticipando quello che sarà il leit-motif di tutta la serata: la musica mantrica.
Caratteristica che, in questi ultimi, assume una connotazione più arabo-mediterranea mentre, per David Eugene Edwards e compagni, si tinge di blues e musica nativa indiana (d'Ammmèriga, of course).
I Wovenhand, oltre al leader DEE, contano il tastierista Jeff Linsenmeir, il batterista Ordy Garrison e il bassista Pascal Humbert- mutuato dal primigenio progetto dello stesso Edwards, i 16horsepower- e promuovono la loro ultima fatica discografica The Treshingfloor uscito per la Sounds Familyre (US) e Glitterhouse Rec (UK & Europe).
DEE è uno sciamano invasato, ripete le sue preghiere cantate, strabuzzando gli occhi e noncurante del pubblico, tirando con i piedi degli schizzati calcetti improvvisi agli spiriti maligni che danzano intorno al pulpito della sua sedia. Un po' Johnny Cash, un po' Nick Cave e un po' Jim Morrison, solo che, mentre quest'ultimo era il predicatore della rivoluzione e della trasgressione, DEE è un predicatore cristiano esaltato dell'America rurale e benpensante del Colorado.
Le canzoni scivolano via un po' tutte uguali, lisergiche, mantriche, ossessive, ipnotiche e, diciamocelo, anche leggermente noiose. I musicisti sono bravi ma distratti, ognuno preso dalla sua trance personale e poco amalgamato al resto dei componenti.
Scivolo totalmente nello sconforto quando il duo greco si unisce al quartetto di Denver per un paio di pezzi, in una sorta di Taranta meets i Canti degli Apache.
Gli unici sprazzi di vitalità e dinamiche riesco ad ascoltarli soltanto sugli ultimi due brani, durante il bis, Whistling girl e Winter shaker, come se, magicamente, adoperando un po' di energia e un po' di sano vecchio rock, si riuscisse a scuotere la solenne litania dei sermoni finora pronunciati.
Peccato. Sono delusa e orfana di tutte le belle emozioni che ho provato ascoltando i loro dischi, Consider the birds primo fra tutti.
Del resto, non avevo notato che DEE porta un orologio al polso sinistro.
E mai fidarsi di uno sciamano che indossa un orologio.

lunedì 22 novembre 2010

BUKOWSKI FEATURING SUORANGELA


Se l'amore è un cane che viene dall'inferno,
l'odio è un gatto che viene dal paradiso?



venerdì 19 novembre 2010

IT'S NOT ANY OF YOUR FUCKING BUSINESS


Dice Suorangela: fatti sempre i cazzi tuoi che, se non campi cent'anni, se non altro, campi.



lunedì 15 novembre 2010

ESPERANZA SPALDING LIVE IN ROME @ AUDITORIUM

Se undici anni fa mi avessero detto che mi sarei data all'ascolto forsennato e al recupero di tutta la musica indie, dell'elettronica rumorosa, dell'hard e del post-rock, probabilmente avrei messo su una faccia a punto interrogativo, chiedendomi, come molte persone oggi, se per indie si intendesse musica etnica indiana o se il krautrock fosse una salsa per condire i würstel.
Così come se qualcuno, non più tardi di tre mesi fa, mi avesse detto che sarei tornata ad ascoltare un concerto di musica jazz, nel senso più classico del termine, probabilmente gli avrei detto che era un pazzo. Negli ultimi tre anni di singletudine ho completamente dimenticato che stare insieme a qualcuno significa, spesso, ritrovarsi a fare cose che non avresti mai scelto di fare.
Ed eccomi qui. Al concerto di Esperanza Spalding all'Auditorium.
Potenza dell'amore. Sono dubbiosa, perplessa e prevenuta.
In più, Lamoremio, si è appena reso colpevole di avermi fatto indispettire.
Non è che non mi abbia risposto, è che non mi ha risposto come doveva. E io, che sono una stupida femmina, a queste cose ci bado.
Mmm. Promette male. E' luna crescente, ho ancora le mestruazioni e sto per assistere ad un concerto jazz- il primo degli ultimi dieci anni a questa parte! - mano nella mano con uno che, al momento, vorrei fare riccio e biondo, giusto per farlo diventare il contrario di quello che è attualmente.
O, tutt'al più, avvolgergli il collo in una corda del contrabbasso della Spalding e tirare quel tanto che basta per farlo diventare cianotico.
E' troppo tardi per battibeccare: le luci si abbassano e lo spettacolo ha inizio.
Lei entra, tronfia e trionfale. Si toglie il soprabito, il foulard e le scarpe, dopo aver acceso una lampada a stelo alto. Si accomoda su una poltroncina davanti ad un tavolino e si versa un bicchiere di rosso, mimando il siparietto di quella che è la sua solenne ed auto-referenziale dichiarazione di intenti: sono bella, brava e giovane e voi potreste esserci ma anche no. Ora mando giù due sorsi e poi vi spacco le palle per le prossime due ore.
La formazione è la seguente: Esperanza alla voce, contrabbasso e capelli. Una corista, due violinisti, una violoncellista, un pianista e un batterista.
Per l'ora e tre quarti successiva si snoda un'interminabile, perenne, (dode)cacofonica improvvisazione di scat, obbligati, quarte sospese, quinte aumentate, scale esatonali e semitoni.
L'ultimo quarto d'ora, bontà loro (con i due bis), si riesce a percepire l'accenno di una melodia e una mezza dozzina di vere parole che non siano ba-doo-ba-dwee-ba.
Immaginavo di trovarmi di fronte a questo (e già sarebbe stato sufficientemente impattante per la mia concezione attuale della musica) e, invece, mi sono ritrovata di fronte a questo.
Ottimo. L'esibizione non ha minimamente addolcito il mio cattivo umore, se non tentando di stordirmi con il letale effetto soporifero di una noia mortale.
Già mentre scendiamo le scale della galleria della Sala Petrassi, sono pronta a litigare e comincio a sparare a zero, senza neanche aspettare che mi chieda che cosa ne penso:
"Concettuale. Concettoso. Cervellotico. Cerebrale.
(Oddio, ho finito le C).
Intellettualoide.
Una rottura di Cazzo rara. (La C di cazzo ci sta sempre bene).
Sembrava Berio.
Si è masturbata sul palco, dall'inizio alla fine, soltanto per il suo piacere.
Non mi è arrivata una emozione una, durante tutto il concerto.
Poi, per carità, bravissima, bravissimi tutti, tecnicamente impeccabili ... péééròò ...".
"..."
"..."
"Mi trovo assolutamente d'accordo", dice Lamoremio, "una pesantezza unica".
Lo scruto per vedere se dice il vero.
Dice il vero.
Ecco, in questi momenti mi ricordo perché lo amo.
E perché, come dice il mio amico Pall, finché c'è vita c'è Esperanza.


MOIRA STEWART - SWEETNESS, YES PLEASE! (REMIX ALBUM)

Mi sembra di capire che i Moira Stewart non abbiano goduto molto dei frutti del loro lavoro.
Formatisi nel 2006, nel giro di un anno e mezzo, creano e producono il loro album di debutto, Sweetness, yes!, che esce ad Aprile 2008 per la Distraction Rec.
Una delle loro canzoni, ancora prima dell'uscita dell'album, viene inserita nella serie TV Skins, mentre la stessa sorte viene negata alla loro cover di Give a little love, tratta dal musical Bugsy Malone, poiché Paul Williams non concede loro (non per la serie TV, almeno) i diritti di utilizzazione. Vatti a fidare di quelli che lavorano con i pupazzi!
I tre giovani dei dintorni di Newcastle upon Tyne, che rispondono ai semplici nomi di battesimo di Paul, Alex e Leon, cominciano a esibirsi spesso in giro per il Regno Unito e diventano presto famosi per lo spirito glam-pop dei loro concerti: lucine colorate, coriandoli, stelle filanti, glitter e brillantini a profusione, palloncini colorati in ogni dove e danze scatenate in vestiti sopra le righe.
Prendono i sinth anni '80 e le chitarre indie, un pizzico di David Bowie vestito da Freddy Mercury, li condiscono con un po' di Depeche Mode che strizzano l'occhio ai campionamenti dei Lemon Jelly e al famo-casino dei B-52's, e il gioco è fatto.
Si scelgono anche un nome che richiama hype intorno a sé: Moira Stuart altri non è che una giornalista cult della BBC, l'unica di colore per tanti anni, chiacchierata per la sua lesbo-relazione con Pat Evans e, infine, cacciata dalla stessa BBC perché troppo vecchia!
Insomma, Paul, Alex e Leon le carte in regola sembrano averle proprio tutte: sono gggiòvani, sono inglesi, sono cool e sono electro-indie. Scrivono persino cose divertenti sul loro myspace.
Eppure qualcosa, stranamente, per qualche mistero insondabile del mercato e della fortuna, non deve aver funzionato.
Perlomeno, i tre, finora, hanno raccolto molto meno successo di gruppetti a loro simili come i Klaxons o i New Young Pony Club (ma questi ultimi possono contare sulla forza della topa e, allora, si sa, la musica cambia ...).
Ora, a distanza di un paio d'anni, i nostri ci riprovano, rispolverando l'album del 2008 con tutta una serie di remixes ad opera di alcuni loro connazionali come D_rradio o The Matinee Orchestra, solo per citarne un paio, il duo dei mantovani Tempelhof, gli interessantissimi spagnoli Dot Tape Dot, il norvegese Orange Crush, il bravissimo danese Keith Canisius e qualche immancabile guest americano come, per esempio, OK Ikumi.
Tutti giovani emergenti e volenterosi, dediti all'elettronica di oggi, al retrogusto glitch e al recupero della new wave.
Nel complesso, il disco è piacevole e scorre via come un dolce ma corroborante pop-risveglio e, per dirla (quasi) come la direbbe un mio amico, non sarà seminale ma, sicuramente, paga un tributo all'elettronica anni '80.

martedì 2 novembre 2010

TO INFINITY ... AND BEYOND!


Non bisogna guardare LE cose.
Bisogna guardarci attraverso.



martedì 26 ottobre 2010

MICE PARADE LIVE IN ROME @ INIT


Apre le danze della serata all'Init Silje Nes, timida uccellina delle lande della Norvegia e ora residente a Berlino, dalla voce delicata e le slanciate movenze elfiche, in tour per il suo secondo album uscito per la FatCat Rec, Opticks, e missato da Bernd Jestram dei Tarwater.
Si dividono il palco in tre, lei, con la sua chitarra e i mille effetti e pedali, un violinista/bassista e un altro che suona ciò che resta di una batteria, percussioni elettroniche e anche un po' il glockenspiel e la chitarra.
Sono sognanti, rarefatti, dilatati. Un delicato miscuglio di suoni elettronico-acustici e un inizio dolce che avrei ascoltato volentieri più a lungo dei venticinque minuti scarsi loro concessi.
Poi arriva lei, la navigata matrona francese, Laetitia Sadier, già Stereolab. E' difficile raccontare le sensazioni che questa eclettica e carismatica donna riesce a profondere intorno a sé. Innanzitutto viaggia sola, lei e la sua chitarra da mancina. Nuda e cruda, zero effetti, mesmerica ma umile presenza, voce matura, vibrante, intensa.  Su testi impegnati, in inglese e francese, (un pezzo dedicato a Pasolini e uno in cui ironizza su Sarkozy) ci regala le sue melodie eleganti accompagnate da armonie scarne, intesse ghirigori raffinati che salgono dalle basse profondità delle note quasi da contralto alle vette cristalline dei suoni da soprano, come una Joni Mitchell europea e post-moderna.
Grazie, Laetitia, perché fai arrivare al pubblico cosa vuol dire essere donna, cantante, artista, modesta e di spessore, tutto in una sola volta.
Verso le 23.00 arrivano i Mice Parade, trafelati e in ritardo, da Torino, come ci informa lo stesso Adam Pierce, simpatico ragazzone newyorkese e leader della band. Il che (l'essere in ritardo da Torino) comporta un estenuante sound-check dal vivo a cui dobbiamo assistere tutti per quaranta lunghi minuti.
Io sono piazzata, come al solito, davanti al mio sub-wooferone centrale preferito, dove appoggio, per comodità, borsa, giacchetto e ginocchia a rotazione. Adam si scusa più volte anche se il pubblico lo rassicura. Io stessa gli dico: "We can wait" anche se, al quindicesimo minuto, già mi pento della mia affermazione.
L'attesa, per fortuna, viene poi ampiamente ripagata dalla bellissima performance che i sei musicisti ci regalano.  Doppia batteria sul palco, una per lo stesso Adam (quando non è impegnato a suonare le sue due chitarre o il mandolino o a cantare o a percuotere il cubo di legno che gli funge anche da sedile) e l'altra, ovviamente, per Doug Scharin (che Dio ti benedica, Doug, per il grande, immenso batterista che sei) quando non è impegnato a maneggiare mixer, suoni e rumori alla sua destra o a suonare il basso. Poi ci sono la bambinesca e angelica voce di Caroline Lufkin (piazzata davanti a un Mac che, probabilmente, le serve per fare solitari di Mahjong tra un pezzo e l'altro o anche tra un cantato e l'altro dello stesso brano, momenti in cui lei si accovaccia timidamente dietro al Mac in questione come se la faccenda non la riguardasse più), la chitarra del virtuosissimo Dan Lippel e, infine, un tastierista/bassista e un altro chitarrista/tastierista. Dal vivo sono insolitamente energici rispetto al sound che si ascolta nel loro ultimo lavoro, What it means to be left-handed, (settembre 2010, sempre FatCat Rec) album del quale eseguono quasi tutti i brani in ordine sparso, con tempi leggermente più veloci e in modo molto più grintoso e dilatato.
L'elegante commistione di musica indie, elettronica, folk cantautoriale, ritmi africani e brasiliani, in ambito live, rende perfettamente e lascia ulteriore spazio a molto flamenco e un po' di post-rock.
Questa sera la folla è stranamente silenziosa ed educata. Abbiamo però a che fare con un nuovo tipo di fauna: l'ubriacone-fattone-perso. L'individuo, ovviamente schierato sotto al palco, alla mia destra, si esibisce in danze traballanti e in improvvise esplosioni di vitalità alternate a rallentate inversioni a u su se stesso. E' circondato da un paio di amici, per fortuna un po' meno ubriachi di lui, che lo accudiscono come si farebbe con un bambino piccolo: lo fanno ballare, giocare e lo abbracciano. Quando cade amorevolmente lo rialzano e controllano che non sia troppo fastidioso con le altre persone presenti in sala. Lo stordito scatena spesso l'ilarità degli stessi musicisti e tenta di offrir loro piccoli grappoli d'uva tirati fuori da chissà dove. Adam e Caroline gentilmente declinano. Dan, il seicordista flamencoso, coraggiosamente, accetta qualche acino e se lo ingolla. Evidentemente soddisfatto, lo stonato comincia a franare, lentamente e inesorabilmente, di schiena, sulla mega cassa del sub-woofer centrale.
Io faccio appena in tempo a sollevare borsa e giacchetto e lui tramortisce così, a cinque centimetri dal mio ginocchio.
Niente bis ma solo perché è tardi, è venerdì e c'è la discoteca.

sabato 23 ottobre 2010

N.A.M.B. - .B.M.A.N


E' difficile recensire questo eterogeneo e prolisso nuovo album dei N.A.M.B.
BMAN esce, in prima battuta a ottobre 2009 in Italia ed Europa e a febbraio 2010 negli Stati Uniti, per la britannica Monotreme Rec e a distanza di quattro anni dall'album s/t di debutto uscito, invece, per la Mescal.
E' un progetto ambizioso, un concept album di ben 18 canzoni che, sulla scia di Wall-e, narra le avventure di un piccolo robot, di nome Bman, alla scoperta di se stesso e di ciò che resta dell'umanità.
Questo aspetto è stato una delle prime cose a incuriosirmi molto perché vede l'interazione tra musica e arti grafiche, avendo, Bman, preso forma e vita, sulla carta, nelle sapienti mani di Maq4ka, in una sorta di ciò che potremmo definire music-novel, ossia una graphic-novel trasposta in ambito sonoro: non è un romanzo o un racconto, in questo caso, ad essere trasformato in fumetto ma una pièce musicale a diventare illustrazione e le illustrazioni stesse, di rimando, ad ispirare il materiale sonoro.
Musicalmente parlando i N.A.M.B., acronimo sul quale la band riserva un alone di mistero e di democratico "qualunque cosa voi vogliate sia", nascono a Torino intorno al 2004 e, attualmente, presentano la seguente line-up: Davide Tomat (voce, chitarra, programming, carillon, batteria), Gabriele Ottino (cori, chitarra, farfisa, programming, basso, batteria), Silvio Franco (basso, chitarra, synth, piano, programming) e Davide Compagnoni (batteria, programming, loop station).
In questo nuovo lavoro abbandonano la madrelingua italiana usata nel primo album, tranne che per il geniale e stralunato Musichetta in pausa sigaretta, a favore dell'inglese, per un più ampio respiro internazionale, anche se alcuna critica americana li taccia di usare un linguaggio inappropriato e nonsense.
Addentrarsi nella definizione dei generi risulta impresa piuttosto ardua: c'è sicuramente una base di elettronica, del rock psichedelico, un pizzico di industrial, un condimento di indie e un retrogusto di inevitabile matrice italiana. Dall'inizio alla fine del disco non riesci a capire se facciano della musica mainstream travestita da musica di nicchia o, al contrario, della musica alternativa che strizza l'occhio al versante più pop. Il che li rende sui generis ma anche poco schierati e  difficilmente fruibili da entrambi i lati del pubblico, sia esso underground o, appunto, popolare.
Quello che a me arriva, come primo impatto, è la seguente amalgama di sensazioni: sembra che i N.A.M.B. stiano rielaborando una più moderna versione (e con meno forme-canzone) degli U2 di Acthung Baby, suonati un po' dai Subsonica e un po' dai Nine Inch Nails, interpretati un po' dal Mike Patton dei Peeping Tom e un po' dal John De Leo dei Quintorigo, supportati sonoramente dai Primal Scream e da una pletora di suoni-giocattolo distorti e carillon malati e ubriachi.
Se vi state chiedendo se l'album mi sia piaciuto o meno, onestamente, non riesco a capirlo ancora nemmeno io. Continuo ad ascoltarlo volentieri, un po' con amore e un po' con perplessità.
Sicuramente con una grandissima ammirazione per tanta fertilità produttiva, per la bellezza cristallina dei suoni e la cura certosina di missaggio e mastering.

giovedì 21 ottobre 2010

GEOFF FARINA AND CHRIS BROKAW LIVE IN ROME @ INIT


Ok, sbrighiamo le formalità.
Geoff Farina (ex Karate, Glorytellers e Secret Stars) e Chris Brokaw (ex Come, Codeine e Pullman) hanno recentemente inciso per la Damnably Rec (mercato europeo e britannico) e per la stessa etichetta di Brokaw (mercato statunitense) la Capitan Rec, due dischetti usciti in primavera e in autunno 2010, The Angel's Message To Me e The Boarder's Door.
Due chitarre acustiche, due voci, una manciata di brani classici della musica country-blues e qualche pezzo scritto, invece, di proprio pugno dai nostri.
Il loro modo di suonare il country, anche nelle rivisitazioni dei classici, è più riflessivo, cantautoriale, rallentato, contaminato dalla neve silenziosa e dal freddo solitario del Nord-Est, rispetto a quello tipico americano del Sud, sfavillante, galoppante e incline alle velocità circensi.
E' lo stesso Geoff ad informarci che ha trascorso l'ultimo anno nel Maine, un posto molto "cold and lonely", che lo ha portato a scrivere un paio di pezzi altrettanto "cold and lonely".
Cominciano insieme, poi Chris lascia in solo Geoff, poi viceversa, poi concludono di nuovo insieme.
Geoff ha una voce sgranata e velata, si esibisce in un finger-picking discretamente virtuoso, i suoi testi sono poetici, impegnati, ricercati. Ha un piglio costantemente altero e serioso, è compreso nella parte ma sempre un po' distaccato. Chris ha un timbro leggermente più potente e un approccio più sanguigno, nel modo di cantare e anche in quello di suonare la chitarra.
Sono semplici, onesti, appassionati di quello che fanno, e richiedono silenzio e attenzione, come tutte le cose delicate e poetiche.
Io che pensavo di rischiare l'effetto soporifero, dopo il terzo pezzo di arpeggi dolci e voci malinconiche, invece, mi ritrovo cullata e immersa in un'atmosfera sognante e scarna.
Cerco di concentrarmi sul significato dei testi anche se, ovviamente, non essendo madrelingua, mi perdo qua e là qualche parola.
Il pubblico sparuto, nonostante la presenza di tre coppie rumorose e un gruppetto di amici ubriachi e molesti, è coinvolto e caloroso e riesce a strappare ai due anche un paio di bis, nonostante Geoff non smetta di indirizzare occhiatacce di disappunto ai cafoni presenti in sala e il povero Chris sia costretto, scusandosi per giunta, a richiedere un po' di silenzio: "I'm trying to concentrate up here ...", dice.
E ora cominciamo con l'invettiva.
Quello che non smetterò mai di chiedermi è perché, perché, perché, Santo Dio perché, la gente venga ai concerti per chiacchierare, a voce alta per altro.
Non mi rifugerò nemmeno in rituali formule di cortesia quali "secondo la mia umile opinione" o "sicuramente mi sbaglierò io".
No, no. E' così e basta. E vi sbagliate VOI.
Voi. Che venite ai concerti e non sapete nemmeno voi perché.
Voi. Che fate presenza alle serate e non ne capite l'essenza.
Voi. Che dissacrate l'arte e vanificate il duro lavoro che c'è dietro ogni sforzo di comunicare emozioni, sensazioni e sfumature.
Voi. Che Dio vi dovrebbe recidere le corde vocali e amputare le lingue e insegnare come si sta al mondo.
Voi. Che ma chi ve lo fa fare di spendere 10 o 15 euro, se non di più, soltanto per disturbare la bellezza di qualcosa che non sapete apprezzare e l'attenzione di coloro i quali vanno ai concerti per fare quello che dovrebbe essere fatto: ascoltare.
Per favore, se volete fare salotto o sfoggiare il vostro ultimo look, andatevene al Gilda o al pub sotto casa  o in giro per il centro. O, perlomeno, restate fuori.
Grazie.

sabato 16 ottobre 2010

TIMELINESS


C'è un tempo per essere abbronzati e un tempo per essere pallidi.



domenica 10 ottobre 2010

THIS WILL DESTROY YOU LIVE IN ROME @ INIT


La serata all'Init è piena zeppa di gente. Fila per entrare, porte rigorosamente chiuse fino alle 22.15 e non si comincia prima delle 22.45.
Ormai, per gli orari dei concerti, non so più come devo regolarmi.
Apre la serata la formazione romana dei Refuso che sta incidendo il suo primo album e, nel frattempo, si esibisce parecchio, tra Roma e Berlino. 
La band conta ben sette elementi: l'ispirato Andrea Treccia D'Amico al basso, Daniele Casolino al piano, Dario Calfapietra alla chitarra e glockenspiel, Valerio Iammartino all'altra chitarra e voce, Pietrina Mancini al violoncello, Martina Pelosi alla voce e Matteo Ambrosetti alla batteria. 
La loro musica è un singolare miscuglio di post-rock Pink Floyd-iano, prog un po' psichedelico, atmosfere leggermente folk e pop italiano impegnato.
Affiatati, bravi tecnicamente e dediti. Il mio gusto personale mi farebbe suggerir loro di rendere i cantati (nonostante la bella voce e le indubbie capacità tecniche e di estensione di Martina) meno invasivi, per evitare l'effetto Anna Oxa meets Rachels
Il che, però, potrebbe essere anche un tratto distintivo. Come ho premesso, il gusto è personale.
Dopo un abbastanza rapido cambio-palco, arrivano i nostri magnifici quattro che stanno per affrontare le ultime date del tour europeo (che si concluderà il 17 ottobre con gli ultimi tre concerti in Romania, dopo aver effettuato un estenuante tour de force che li ha visti aprire, in giro per gli USA, durante tutto agosto e buona parte di settembre, per gli Autolux e i Deftones) in occasione dell'uscita del loro ultimo album Tunnel Blanket per la Magic Bullet Rec.
I This Will Destroy You sono quattro texani ruvidi e un po' marci, tranne il batterista, Alex Bhore, che, oltre ad essere bravissimo, sembra anche essere 
l'unico bravo ragazzo: non beve, non fuma, parla e sorride a tutti, a differenza dei tre restanti membri del gruppo che sembrano come avvolti da una sorta di torpore dionisiaco, lievemente autistici e chiusi in una specie di timidezza un po' sprezzante. Gli altri, appunto, Donovan Jones (basso a 5 corde, catafalco tastieroso tipo moog e suonetti vari), Chris King (chitarra e faccia in trance del fu Michel Petrucciani durante gli assoli) e Jeremy Galindo (chitarra, campionamenti e suonini vari, compresi lamenti di voce distorta) fumano sul palco e si passano whiskey e birre senza rispetto per la continuità della gradazione alcolica. 
In faccia leggi loro la sofferenza di quelli che la musica la sentono nelle corde e nel sangue, come sentono il male della vita e il peso dell'arte. 
E, un po', è un atteggiamento ostentato à la maudit e, un po', è il segno caratteristico di coloro i quali si ritrovano a vivere un destino che, seppur piacevole, in fondo non hanno scelto, come, del resto, capita a tutti noi. Questo Vi Distruggerà, evidentemente, non un nome a caso. 
Insieme hanno un sound profondo e potente, radici rurali di un post-rock sospeso nel tempo che ti entra sotto la pelle e ti scuote le budella. 
I megabassi del sub-woofer centrale, davanti al quale mi sono piazzata, spostano con vibrazioni vigorose la mia gonnellina e la falda degli stivali appena sotto alle ginocchia. 
Le dinamiche vanno su e giù di continuo, come montagne russe in cui lente ed emozionanti salite precedono discese sfrenate e vertiginose, e la tempesta arriva dopo la quiete e poi ritorna la quiete e poi, di nuovo, la tempesta.
I pezzi sono tutto un susseguirsi di laghi calmi di chitarre rarefatte a cavalcate dirompenti di batterie energiche, ritmi spezzati e, a volte, quasi tribali. Loop reiterati, esplosioni rumorose, suoni allungati e distorti, accordi dolci e veemenza graffiante. E, saranno pure in ritardo di quasi dieci anni e i gruppi di riferimento li potrebbe 
elencare anche un (indie)bambino (Mogwai, Explosions in the Sky, God Speed You! Black Emperor e anche un po' Labradford) ma la folla si esibisce in semi-lenti eppur vitali head-banging. 
Applausi, trasporto, delirio.
Ad avercene di post-rock così. In Italia e nel mondo.



venerdì 8 ottobre 2010

LOVE AMONGST RUIN LIVE IN ROME @ CIRCOLO DEGLI ARTISTI




Arrivo in ritardo, come al solito, in tempo per sentire giusto l'ultimo pezzo del gruppo d'apertura, i romani Spiral 69, i quali mi sembra facciano un onesto pop-rock un po' new wave e appena gotico, con voce maschile e bella pianista darkettona al seguito, e promuovono il loro primo album, A filthy lesson for lovers uscito il 5 ottobre per la Megasound rec.
Poi, dopo un bicchiere di vino, mi guardo intorno e comincio a studiare la situazione.
Quando ci sono Inglesi e soldi c'è professionalità.

C'è un banco vendite che sembra una tavola imbandita per dodici persone con magliette di tutti i tipi, album, singoli, posters, borse, spillette (chi più ne ha più ne metta) e ben due (e dico due) addetti allo smercio di cotanta abbundantia.
Questo fatto mi spinge alla prima ponderosa riflessione su come oggi tutto sia consumistico e precorritore della sostanza stessa di un fenomeno. Mi spiego meglio. Come fa una band formatasi soltanto un paio di anni fa e della quale, comunque, l'album omonimo di debutto è uscito da appena poco più di un mese (tramite la stessa etichetta di Hewitt, la Ancient B rec), come fa una costola infelice nata dalla singola cenere di un'altra band (i Placebo) che, almeno, aveva (ha) dalla sua parte caratteristiche di personalità e peculiarità, ad avere GIA' quattro diversi tipi di magliette e un armamentario degno dei Pink Floyd all'apice della loro carriera?
Non dovrebbero PRIMA diventare famosi e POI atteggiarsi a tali?
Ma, quando ci sono Inglesi e soldi, c'è marketing. Poi ci sono l'accordatore sul palco (prima che entri la band) e l'omino tutto-fare che si aggira, indaffarato, controllando i collegamenti dei vari cavi, distribuendo bottigliette d'acqua (due a persona), asciugamani bianchi detergi-sudore e attaccando i fogli delle scalette con lo scotch-carta. Il tutto per ogni membro della band. 
E sono sei. Lui, Steve Hewitt, l'ex-batterista dei Placebo, appunto, usa la voce, il tamburello e una chitarra da mancino, poi c'è la prima chitarra (Steve Hove), la seconda chitarra (Donald Ross), la donna bassista e contrabbassista elettrica (Teresa Morini), il batterista (Keith York) e il tastierista, suonatore di piatto singolo e tamburello e, all'occorrenza, anche suonatore di violoncello elettrico (Laurie Ross). 
Mancano due cose fondamentali: la musica e la gente. La gente perché, come dicevo già ieri, questo mondo produce troppo e apprezza poco e, forse, in questo caso, ha ben poco da apprezzare. Al di là di considerazioni personali, stare dietro a tutti questi concerti, per non parlare di tutti i dischi, comporta un notevole dispendio in termini sia di energie fisiche che di soldi. E poi la musica. Diciamo un buon (???) pop-rock molto tradizionale, senza infamia né lode, indubbiamente ben eseguito ma senza calore. A me non arriva un colpo al cuore, né uno spruzzo di sudore, né una goccia di sangue, né una bava di saliva, né il graffio di un suono o il guizzo di un'originalità. Niente di niente. Soltanto una sequela di note banali, in stilemi integralmente precostituiti, vecchi, aridi, patinati e plastificati. Leggo altre recensioni in cui i 
Love Amongst Ruin vengono accostati ai Depeche Mode (?), ai New Order (??), ai Kasabian (!), ai Metallica (?!), ai Can (??!!) e mi domando come sia possibile.
Poi mi ricordo che, quando ci sono Inglesi e soldi, a volte, ci sono anche gigantesche operazioni commerciali. Ne avevamo bisogno?



mercoledì 6 ottobre 2010

OH NO ONO LIVE IN ROME @ MADS





E' difficile inquadrare queste strane creature fulvo-(s)capigliate, provenienti dalla Danimarca e sbarcate, ieri sera, al Mads di Roma.
Malthe Fischer, il cantante principale della band, esordisce sul palco, in un solo di voce e chitarra, come uno stralunato folletto del Nord con la voce di Topo Gigio, in un brano intitolato Sunshine and rain at once, tratto dal primo album, Yes. L'unico pezzo lento e ammaliante.
Poi si aggiungono l'altro cantante/bassista/tastierista/sampleratore Nis Svoldgard, il terzo cantante/chitarrista anch'egli sampleratore Aske Zidore e l'ottimo batterista Kristoffer Rom, occhialetto da nerd e click in cuffia.
Attaccano con Helplessly young, tratto da Eggs, l'ultimo album che stanno promuovendo e licenziato dalla Leaf, pezzo dalle reminiscenze Cure-iane in cui Malthe, stranamente, continua a sembrarmi un Tom Waits un paio di ottave sopra, giovane, poco ubriaco e senza voce roca.
Poi arriva Ba ba baba ba ba well anyway, sempre dal primo disco, in cui sembrano dei vaghi Beach Boys macchiati di punk elettronico.
Punk è l'attitudine con cui suonano: tanta energia, buona amalgama e non troppa tecnica. Arrivano altri tre pezzi da Eggs: Eleanor speaks, Internet warrior e Icicles in cui sembrano dei vigorosi Beatles ubriachi e dei Supertramp post litteram. 
Poi si torna a una canzone tratta da Yes, Am I right? in cui sembrano dei Sigur Ros invasati dai Ramones, si procede con The wave ballet, che apre con uno shoe-gaze alla My Bloody Valentine contaminato di cantati pop, la bellezza sconvolgente di The tea party, l'energia pura di Keeping warm in a cold country(Yes), l'electro-funk-punk, disco-malata e post-moderna di Practical money skills for life (Yes), il rock&roll puro venato di new-wave con una cantilena dei Fiordi di Miss Miss Moss, e, infine, Fat Simon says con degli insoliti e difficili cambi di ritmo, tratto dal primo EP. 
Applausi, tanti, di una compagine sparuta, in un mondo che, purtroppo, produce troppo e apprezza poco. 
I nostri tornano per il bis: una splendida cover di Tomorrow never knows dei Beatles, con guest del tour-promoter che sale sul palco e imbraccia la chitarra, unendosi ai suoi protetti. Gli Oh No Ono rendono onore a questo pezzo come pochi altri: attaccano con ritmi tribal- indianeggianti e, poi, diventano sempre più potenti, energici, esplosivi, estenuanti. Un finale come dovrebbero essere tutti i finali: memorabile. 
Come sorpresa ultima, al banco CD, spille, gadgets e magliette, i prezzi sono più che politici: a discrezione dei clienti! 
Mi porto a casa due magliettine dall'estetica curata e avant-garde, pensando che, come al solito, dal Nord Europa abbiamo solo da imparare.



domenica 3 ottobre 2010

BLACK MOUNTAIN LIVE IN ROME @ CIRCOLO DEGLI ARTISTI



Pronti per l'energia? Pronti, partenza, via.
Quaranta gli anni, (psichedelia) più o (rock classico) meno, in cui proiettarsi indietro nel tempo e quaranta i minuti che il Circolo degli Artisti dovrebbe aggiungere all'orario d'inizio dei concerti.
Perché, va bene la politica professional-britannica del suonare presto, finire presto (e non pulire il water) ma arrivare alle dieci spaccate e aver già perso un paio di pezzi dei Black Mountain è veramente troppo, calcolando anche la presenza di ben due gruppi d'apertura: i londinesi Goldenheart Assembly e gli australiani Night Terrors.
nostri, invece, arrivano dal Canada e promuovono il loro terzo album uscito per la Jagjaguwar Rec, Wilderness Heart.
A guardarli bene, i Black Mountain, più che di Vancouver, sembrano cinque giovani fricchettoni appena usciti da uno scantinato californiano, un paio di estati dopo Woodstock e troppe estati prima dello stoner dei Kyuss, e, per caso, catapultati ai nostri giorni.
Le loro sonorità spaziano tra i Jefferson Airplane e i Quicksilver Messenger Service, per quello che riguarda l'impronta più psych-acid-rock, e la durezza energica dell'hard-rock e metal dei Black Sabbath, forse veri numi tutelari del gruppo.
Poi si tingono vagamente di echi Doors-iani, sulle ballate più blueseggianti, portano nel cuore la lezione dei Velvet Undreground, citano appena i Pink Floyd dei primordi e, sul terzo bis a chiusura del concerto, omaggiano anche il riff iniziale di You doo right dei Can.
Il tutto onestamente e incredibilmente cristallizzato in un insolito viaggio nel tempo, sospeso tra il miglior (roots) rock americano e l'heavy (blues) inglese, senza via d'uscita né ritorno.
La formazione vede Stephen McBean, leader, voce e chitarra della band, affiancato da Amber Webber come seconda cantante, Matt Camirand al basso, Jeremy Schmidt alle tastiere e Josh Wells alla batteria, tutti rockers immersi nella parte, tecnicamente
abili, navigatamente esperti e caldi come il sole californiano.
L'unico lieve dispiacere lo provoca soltanto la cantante femminile: incautamente posta al centro della scena come front-woman, meglio farebbe, invece, a spostarsi lateralmente come sider di Stephen.
Peccato, perchè la sua voce è bella, cristallina e pastosa, uno strano miscuglio di una Neko Case prestata al rock e macchiata di lievi tinte Celin Dion-iane, ma Amber, evidentemente di nome e di fatto, appare come una creaturina preistorica intrappolata nella resina della timidezza e dello stoccafissaggio. E su un rock come questo, proprio non si può.



lunedì 27 settembre 2010

CANADIANS LIVE IN ROME @ CIRCOLO DEGLI ARTISTI





La locomotiva arriva dal Nord, dritta, filata, compatta e scoppiettante. Da Verona per l'esattezza. Dopo l'ottimo esordio di A sky with no stars nel 2007, il conseguente tour e un silenzio misurato e proprio di coloro i quali la musica la fanno davvero (perché la aspettano e la sentono), esce The fall of 1960, a distanza di quasi tre anni, nello scorso aprile, sempre per la Ghost Rec, e il relativo tour. 
Canadians dal vivo sono efficienti, navigati, robusti, serrati e risoluti; un muro di suono ben amalgamato, solido ed energico, uno strano miscuglio dal sapore californiano venato dalle nebbie del Nord Italia. Tant'è che, mentre arriviamo, in ritardo come al solito, sul finire del secondo pezzo (l'inedito Lethargy), ed esserci perse A great day, la mia amica mi fa: "Ma che davero, so' Italiani?". 

Eh sì. Per una delle poche volte, buoniddio sì, sono italiani. E non scimmiottano: rielaborano. Non scopiazzano imbastardendo, piuttosto interpretano personalizzando. 
A tal punto che quasi mi verrebbe in mente di suggerir loro una follia: almeno una volta fare un testo in italiano. Secondo me, sarebbero in grado, senza scadere nel ridicolo. 
A ogni modo, il concerto procede ininterrotto e scorrevole: si alternano brani (Leave no trace) dall'ultimo e (Ode to the season) dal primo album, dal sapore più Weezer-iano, poi arrivano Carved in the bark, The night before the wedding e Yes man che virano più Death Cab for Cutie e Grandaddy, si torna alla poesia energica e nostalgica del post-college americano di 15th of August Last revenge of the nerds del primo album, poi, di nuovo, ad una quadripletta di canzoni dell'ultimo lavoro: Rain turns into hail e Kim the dishwasher, con cantati degni dei Beach Boys, e la malinconia appena accennata di The fall of 1960 The richest dumbass in the world. Poi, ancora una tripletta di brani dal primo album, tra cui la notevole Out of orderSummer teenage girl e, per concludere, Good news.
Insomma, una scaletta davvero lunga e quasi senza respiro tra un pezzo e l'altro, in cui è possibile ammirare la bravura dei tre front-men: Duccio Simbeni alla voce e chitarre (e testi, sempre molto garbati e ironici), il polistrumentista- (tastiere, mandolino, glockenspiel) cantante Vittorio Pozzato e il bassista-cantante-intrattenitore-promotore Massimo Fiorio, sempre saldamente supportati dalla granitica presenza di Michele Nicoli all'altra chitarra e il degnissimo di nota Christian Corso alla batteria.
Le uniche cose di cui si sente una lieve mancanza, a volte, sono, tra tanta compattezza, creatività e perizia tecnica, un po' più di trasporto e coinvolgimento emotivo.