mercoledì 10 febbraio 2010

APPROVAL


Il bisogno di riconoscimento da parte degli altri è, in un certo senso, il più alto disprezzo di se stessi.



mercoledì 3 febbraio 2010

ASIMMETRIA



Roma sa di antico, rancido e borioso.
Lei lo percepiva, come percepiva la boriosità e la rancidità dell'uomo che le aveva affittato l'appartamento. A lui mancava l'attributo più importante: l'antichità.
Era solo uno stupido giovane, rancido e borioso. Un galletto di quartiere, un teppistello ripulito, un arraffazzonato truffaldino travestito da agente immobiliare, con le scarpe dalle punte lunghe ma quadrate.
E, se Roma si portava quegli aggettivi nella loro accezione più bonaria e scanzonata, su di lui, invece, ricadevano come un macigno di cattiveria, con la stessa sciocca bruttezza delle sue scarpe.
Anna veniva dal Nord. Fuggiva dal marito che non aveva mai avuto e da una figlia che non era mai nata e la monotona dolcezza delle pianure ferraresi se la portava nel cuore, con un misto di nostalgia e ribrezzo.
Aveva accettato il trasferimento un paio d'anni prima perché non aveva nulla da perdere e nulla da trovare e perché - si era detta - i ragazzini fanno chiasso nello stesso modo e le materie da insegnare rimangono sempre quelle.
Appena arrivata, aveva pensato di sistemare, almeno un po', quella casa brutta e buia ma così comoda per il prezzo e per l'ubicazione, poi il grigiore dei giorni e la pigrizia dei gesti avevano avuto il sopravvento. La caldaia si era rotta per l'ennesima volta e lo stupido giovane borioso tergiversava nel mandarle il tecnico.
Così, Anna se ne stava al freddo, avvolta in una piccola coperta di paille, le gambe rannicchiate sul divano liso e scricchiolante, ad aspettare che anche quel pomeriggio uggioso di una domenica di fine gennaio si consumasse.
Lo scenario era sempre lo stesso, domenica dopo domenica dopo domenica.
Un quattordici pollici a tubo catodico rimandava le immagini mute di qualche soubrette misconosciuta che dimenava il corpo seminudo e, tutt'intorno, altri personaggi misconosciuti facevano un gran parlare, un gran sorridere e un gran applaudire. Tutti sembravano divertirsi un mondo, tranne lei.
Lei si limitava a stare lì, incancrenita sul suo divano consunto, mentre guardava attraverso le pareti scrostate e giallognole di quell'appartamento provvisorio e scuro, mentre percorreva il filo delle crepe nei muri con occhi vacui, mentre subiva, con orecchie distratte, l'unica colonna sonora aritmica del rubinetto che gocciolava nell'acquaio e dell'orologio che scandiva il tempo interminabile, appiccato, sbilenco, al suo chiodo.
La Stramba la chiamavano i suoi alunni, nel migliore dei casi. La Zoppa. Anna di Legno. Piede di Porca. Loro non amavano i suoi vestiti fiorati di donna d'altri tempi, né i suoi capelli grigi raccolti sulla nuca, né potevano perdonarle, minimamente, la diversa lunghezza congenita delle sue gambe o l'accento estraneo del settentrione o, ancor meno, la dolcezza monotona della sua voce che andava avanti all'infinito, a narrar di poeti, battaglie, stilemi e alleanze, dritta come un fuso, lieve come le pianure del Po, inascoltata come la neve che cade sui rami.
Eppure Anna non era vecchia. Era stanca.
Tra una domenica e l'altra, i giorni procedevano tutti uguali: alla mattina la scuola, al pomeriggio i compiti di Italiano da correggere, le lezioni di Storia da preparare e un breve passaggio al supermercato per cibi frugali e insipidi da cucinare.
Nessuno da vedere, nessuno da sentire, niente da desiderare. Almeno qualcuno avesse ascoltato le sue lezioni. Almeno qualcuno avesse smesso di ignorare la sua voce senza ridurla, quasi ogni volta, al flebile lamento della formica che cerca di emergere, vanamente, in mezzo al frastuono molesto delle cicale in agosto. Almeno quello stupido giovane arrogante le avesse mandato il tecnico della caldaia senza farsi telefonare quattro volte e negare altre due. Almeno non fosse stata un'altra volta domenica.
Anna percepì un cambio di ritmo nella colonna sonora del suo giorno di festa. Alzò il volume del televisore, poi lo riabbassò. Qualcosa era cambiato ma non sapeva ancora cosa. Per un attimo pensò che il rubinetto del lavello avesse smesso di gocciolare. Si alzò dal divano per andare a esaminarlo ma, avvicinandosi, si rese conto che il rumore dell'acqua era inconfondibile.
Buttò uno sguardo alla parete e vide che l'orologio si era fermato.
Improvvisamente capì. Orologio appiccato, orologio sbilenco, orologio inchiodato.
Frugò nella cassetta degli attrezzi, trovò quello cercava, lo prese e si arrampicò sulla credenza, a fianco dell'alta porta del cucinotto. Con l'altezza guadagnata raggiunse la traversa che separava la porta dal sopraluce sovrastante, i cui vetri erano stati rimossi chissà quando, se mai ve ne erano stati alcuni. Ci legò la corda alla bell'e meglio e costruì un cappio di fortuna.
Si sciolse i capelli e pensò alla sua voce. Pensò alla fortuna, alla nostalgia e al ribrezzo.
Infilò la testa nel cappio e si gettò nel vuoto. E rimase così, a penzolare.
Una gamba più su e una più giù.