venerdì 29 gennaio 2010

VI VEDO, FRATELLI

Avatarmovie.com
Stesso cinema: l'Adriano, anche se trent'anni dopo.
Trentuno, per l'esattezza. Stessa formazione: io e mio padre.
Certo, all'epoca, l'Adriano non era un multisala a tre piani con le scale mobili e i pavimenti sbrilluccichini. 
Nossignore, era un'unica immensa sala a pian terreno con le poltroncine nemmeno troppo comode, una predominanza di colori grigio-topo e marrone-marcio, l'audio un po' scassato e rimbombante, dove, non troppi anni prima, si narra si esibissero gruppi addirittura come i Beatles.
L'Adriano, a Roma, non era un cinema, era IL cinema, oltreché sala da concerto, all'occorrenza.
L'Adriano era un'istituzione, un posto per famiglie la domenica pomeriggio, un posto per coppiette il sabato sera, un posto per le nonne di Prati e Borgo dove portare le nipoti, il sabato pomeriggio, a vedere i film di Celentano o Bud Spencer e Terence Hill.
Un posto dove i nonni portavano le amanti per far bella figura, salvo poi incontrare le mogli con le nipoti e rovinare il sabato pomeriggio a tutti. Ma questa è un'altra storia.
Il posto perfetto, insomma, per un padre, sua figlia e la Saga di Guerre Stellari.
Stesso cinema, anche se trent'anni prima. 
Stessa pietra miliare nell'industria cinematografica. 
Stessa formazione: io e mio padre. 
Ci mancano i pop-corn e siamo due bambini perfetti.
Ma, all'epoca, bisognava dare il buon esempio e, quindi, niente schifezze da mangiare.
Poco importa perché quello che importa veramente è fluttuare nel buio della sala sospesi nel cosmo spaziale, fuggire a bordo di qualche astronave o a cavalcioni di qualche astrusa creatura aliena, dare la mano a C1-P8, chiedere alla mamma gli chignon della Principessa Leila, sognare un bacio di Luke Skywalker o Ian Solo, avere Chewbecca come orsacchiotto personale e credere che tutto sia perduto prima che, proprio a un attimo dalla fine, il Bene trionfi. 
Poco importa perché quello che importa veramente è la fluorescenza delle nostre spade laser e, ci puoi giurare, il ronzio che fanno, proprio a fianco dei nostri sedili. 
Poco importa perché quello che importa veramente è che, per ogni episodio della Trilogia nel corso degli anni, siamo rimasti dentro al cinema a vedere due volte di filato lo stesso spettacolo, incollati alle poltrone come se dipendesse da noi la sconfitta dell'Impero e, ogni volta, mamma si preoccupava per che fine avessimo fatto e, ogni volta, la maschera del cinema ci guardava storto perché pagavamo una sola volta il biglietto ma, all'epoca, di computer e posti numerati ancora non se ne parlava e si poteva osare.
Stesso cinema, l'Adriano. Stessa formazione: io e mio padre. 
Ci mancano i pop-corn e siamo due bambini perfetti. 
Ma, oggi, il colesterolo è un po' alto e, quindi, niente schifezze da mangiare. 
Stessa pietra miliare nell'industria cinematografica: Avatar.
Ci sono voluti trent'anni (Signore degli Anelli a parte) perché potessi riprovare in un cinema le stesse emozioni, gli stessi brividi sottili, lo stesso senso di stupore e meraviglia e novità, nel cuore e davanti agli occhi. Trentuno, per l'esattezza.



martedì 5 gennaio 2010

COSCIENZA MANNARA



I peli sulla faccia le si cominciarono ad allungare.
Erano duri, ispidi e si moltiplicavano a vista d'occhio. Con le unghie spesse e uncine della mano sinistra ne saggiava la consistenza e la quantità, mentre con la mano destra affondava nel materasso, sostenendo il peso della posizione carponi.
Con orrore si rese conto della metamorfosi che stavano subendo anche le sue dita.
Le lenzuola cominciarono a lacerarsi.
Sbarrò gli occhi verdi nel buio, pietrificati dal panico. Il gatto passò e ne colse il balenìo luccicante, di un giallo vitreo e marcio. Arruffò il pelo, soffiò e corse via, preso da un terrore cieco.
Intanto lui continuava a incularla da dietro, afferrandola saldamente per i fianchi, ignaro.
I peli cominciarono a crescerle anche sul collo e sulle spalle cosicché, quando lui andò a cercarle i capelli con una mano, ne venne fugacemente a contatto e un brivido inconsapevole gli corse lungo la schiena.
Lo scambiò per eccitazione rinnovando il vigore dei colpi con cui la sferzava e l'oscenità delle parole con cui l'apostrofava. Lei cercò la mano di lui tra i suoi capelli, affondò le unghie di lupa fino a farlo sanguinare, poi gli prese il polso sottile e lo spezzò.
Lui diede l'ultimo atroce affondo, come il riflesso incondizionato del maschio della mantide che continua compulsivamente il suo disperato amplesso, anche dopo che la femmina gli ha divorato la testa a morsi. Poi si divincolò e si ritrasse urlando.
Cominciarono ad ululare entrambi: lui di dolore, lei di consapevolezza.
Si scrutarono per un istante, nel lieve chiarore dei raggi lunari che penetravano dalla cornice nera oltre la finestra. Lui la guardò con incredulità e sgomento, contorcendosi sul braccio dolorante. Era così magro e pallido al punto da sembrare uno spettro, tanto che, incontrandoli nella notte, ci si sarebbe spaventati ugualmente di entrambi.
Lei lo guardò pensando che avrebbe potuto spezzarlo con poco sforzo, come un ramo secco o un fuscello sottile. Poi i suoi occhi incontrarono la luce della luna che accrebbe ancora il suo vigore e accelerò la sua metamorfosi.
L'impulso di sbranarlo era potente, atavico, inesplicabile. Gli ringhiò allo spazio di un naso dal naso, digrignando i denti e leccandosi le labbra con bava di famelica ferocia.
Ululò per l'ultima volta verso la luna, poi lo superò d'un balzo, ignorandolo per commiserazione.
Infranse il cristallo della finestra e si schiantò nel buio.


sabato 2 gennaio 2010

MATITE




Non gliel'aveva mai detto nessuno che la paura è un'amica dalle gambe corte e le parole brevi.
Né che nel suo mondo non c'è spazio per la coerenza e la lungimiranza, o per l'onestà e la rettitudine.
No. Non gliel'avevano mai detto.
Era solo geloso delle foto e del passato, ossessionato dalla sensualità e la carne che lei aveva donato ad altri che non fosse lui.
Come un maschio alfa minato nel controllo del suo territorio grugniva muggiti rabbiosi, silenziosamente mascherato da falso intellettuale rassegnato.
Lascia stare le sue foto, lascia stare le sue lettere: senza quelle non sarebbe la persona che ami ora, si disse lui. Anche se fa male.
Sempre meglio che essere chiamati con il nome di un'altra, si disse lei.
Sempre meglio che essere confusi con l'abitudine e il conforto o che scambiare il rumore di un ruscello con quello dell'acqua di scolo delle fogne.
Decine di scatti, sparsi sul pavimento caldo e sulla scrivania di legno.
Lei guarda lasciva negli occhi della camera. Lei si accarezza le cosce nel punto in cui la pelle è una parentesi bianca tra il nero delle calze e il reggicalze. Lei con dita di stelline a coprire i capezzoli. Lei sdraiata e offerta che si morde le dita e le labbra. Lei con occhi sempre più osceni. E poi curve ardite, carne nuda, carne cruda.
Dandole della puttana non si rese nemmeno conto che lui era ancora più puttana.
Continuò a contorcersi l'addome per altri cinque minuti e a tormentarsi le unghie per altri quattro. Poi prese tre colori, due fogli e una di quelle foto.
E cominciò a disegnarla.