martedì 7 dicembre 2010

WOVENHAND LIVE IN ROME @ INIT


Non mi stupirò mai abbastanza di come alcuni musicisti riescano ad essere assolutamente entusiasmanti ed emozionanti dal vivo, rispetto a certo piattume lezioso immortalato nei loro rispettivi dischi, e, al contrario, di come altri siano decisamente espressivi ed incisivi nei supporti sonori, per poi risultare inefficaci e deludenti nella resa dal vivo.
David Eugene Edwards, in arte Wovenhand o Woven Hand che dir si voglia, purtroppo, è la sssècònda-che-hai-dètto. Con mio inaspettato disappunto.
Ad aprire il concerto ci pensa il duo del percussionista e poli-strumentista greco Loukas Metaxas che accompagna i Wovenhand in tutto il loro tour europeo, tra Germania, Svizzera, Italia, Spagna, Portogallo, Francia e Paesi Bassi.
Loukas e il compare, che suona una lira moderna, hanno la faccia da gnomi cattivelli dei Balcani, profumano di feta e pasticci di moussaka e si esibiscono in litanie neniose e monocorde, al sapore di cetrioli e olive kalamata, anticipando quello che sarà il leit-motif di tutta la serata: la musica mantrica.
Caratteristica che, in questi ultimi, assume una connotazione più arabo-mediterranea mentre, per David Eugene Edwards e compagni, si tinge di blues e musica nativa indiana (d'Ammmèriga, of course).
I Wovenhand, oltre al leader DEE, contano il tastierista Jeff Linsenmeir, il batterista Ordy Garrison e il bassista Pascal Humbert- mutuato dal primigenio progetto dello stesso Edwards, i 16horsepower- e promuovono la loro ultima fatica discografica The Treshingfloor uscito per la Sounds Familyre (US) e Glitterhouse Rec (UK & Europe).
DEE è uno sciamano invasato, ripete le sue preghiere cantate, strabuzzando gli occhi e noncurante del pubblico, tirando con i piedi degli schizzati calcetti improvvisi agli spiriti maligni che danzano intorno al pulpito della sua sedia. Un po' Johnny Cash, un po' Nick Cave e un po' Jim Morrison, solo che, mentre quest'ultimo era il predicatore della rivoluzione e della trasgressione, DEE è un predicatore cristiano esaltato dell'America rurale e benpensante del Colorado.
Le canzoni scivolano via un po' tutte uguali, lisergiche, mantriche, ossessive, ipnotiche e, diciamocelo, anche leggermente noiose. I musicisti sono bravi ma distratti, ognuno preso dalla sua trance personale e poco amalgamato al resto dei componenti.
Scivolo totalmente nello sconforto quando il duo greco si unisce al quartetto di Denver per un paio di pezzi, in una sorta di Taranta meets i Canti degli Apache.
Gli unici sprazzi di vitalità e dinamiche riesco ad ascoltarli soltanto sugli ultimi due brani, durante il bis, Whistling girl e Winter shaker, come se, magicamente, adoperando un po' di energia e un po' di sano vecchio rock, si riuscisse a scuotere la solenne litania dei sermoni finora pronunciati.
Peccato. Sono delusa e orfana di tutte le belle emozioni che ho provato ascoltando i loro dischi, Consider the birds primo fra tutti.
Del resto, non avevo notato che DEE porta un orologio al polso sinistro.
E mai fidarsi di uno sciamano che indossa un orologio.